Fonte: Capitalismo e teoria sociologica. 2019-09-23. 9788891794895. Copyright © 2019 by FrancoAngeli s.r.l., Milano, Italy. Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non Commerciale-Non opere derivate 4.0 Italia (CC-BY-NC-ND 4.0 IT).
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Le dimensioni culturali del tardo capitalismo. Dal capitalismo industriale al consolidarsi dell’ideologia neoliberale
Emilio Gardini
1. Introduzione
Bisogna demistificare l’idea che quanto oggi è di competenza dello stato debba restarlo e dimostrare invece che le frontiere tra stato e mercato dipendono fondamentalmente dall’evoluzione tecnologica. Dimostrare ad esempio che molti settori dai quali la logica di mercato è esclusa per ragioni che potevano essere valide una volta, sarebbero ora assai più efficienti se nuovamente sottoposti alla regola della concorrenza (Lepage, 1978, p. 284).
Henry Lepage, economista francese di ispirazione fortemente liberista, scrive queste parole nel 1978, in conclusione della sua opera prima, Domani il capitalismo (1978) attraverso la quale tenta di evidenziare che il problema principale dell’inefficienza dello Stato nel campo dell’economia e del welfare derivi dalla sua troppa presenza nelle politiche. Ciò, a suo vedere, ostacola il vero potenziale del sistema capitalista. L’opera di Lepage diventa una sorta di manifesto del liberalismo che guarda a quello che scrivono gli economisti americani della scuola di Chicago come Gary Becker che “umanizza” la nozione di “capitale”, il “capitale umano” (2008), per misurare i rendimenti delle persone nella vita sociale a partire dalle loro scelte e dalle loro carriere. Un liberalismo – quello che immagina Lepage sulla scia di Becker e dei neoliberali americani – i cui principi poggiano sulla capacità degli individui di accumulare competenze investendo nelle proprie esperienze allo stesso modo in cui opera un’impresa che investe sul mercato. Questa attenzione della teoria economica verso l’azione sociale permette di spiegare le disuguaglianze a partire dalle esperienze delle persone, dalle loro scelte, dalle loro condotte. Il capitalismo di fine anni settanta però, scrive Lepage, è un “capitalismo bastardo”, non ancora nel pieno del suo realizzarsi, perché le idee liberali non sono ancora veramente parte di una visione di lungo periodo. Il pensiero liberale, infatti, nella visione dell’economista, non deve necessariamente avere delle finalità ma si deve preoccupare piuttosto dei mezzi che consentono di realizzare le migliori scelte in tutti i campi della società. Bisogna fare in modo che la società si “autoconvinca” dei benefici delle politiche e del pensiero liberale. Immagina, insomma, un mutamento di tipo culturale (Lepage, 1978, p. 278):
[…] E ciò non sarà possibile fino a quando i liberali non saranno capaci di dimostrare che il tipo di organizzazione della società che propongono non è legato ad una determinata situazione sociale, ma è compatibile con le aspirazioni ad un profondo mutamento del nostro sistema di valori. Anzi, questo tipo di organizzazione è la condizione sine qua non di questa mutazione (ivi, p. 279).
La rivoluzione auspicata da Henri Lepage è avvenuta. Il cambiamento di valori che accompagna il tardo capitalismo – che non si alimenta più del conflitto di classe (Donzelot 2008) quanto delle contraddizioni “interne” dei singoli (James 2009; Fisher 2009; Ehrenberg 2010) – rappresenta in tutto il credo del “neoliberalismo”.
L’idea di fondo di questo scritto è che il capitalismo è un modello socioeconomico dominante perché non rappresenta soltanto un paradigma legato all’economia, alla produzione e ai flussi finanziari, ma anche perché è un modello retto da logiche culturali dalle quali derivano valori e ideologie che trovano riscontro nella società e nei rapporti sociali. Una prima riflessione sul modo in cui la “cultura” viene determinata dalla logica del capitalismo la si ritrova nelle riflessioni di Karl Marx sulla “cosalità”(1) cui si riducono i rapporti umani di fronte alle merci, come si prova a discutere nel primo paragrafo di questo scritto. Su questa linea, nel secondo paragrafo, si discute dei bisogni indotti nella società di massa a partire dalle analisi di Herbert Marcuse e dei francofortesi. Nel terzo paragrafo si ripercorre, invece, il cambiamento nelle politiche per il “sociale”, derivante dalla destrutturazione “del collettivo” nel tardo capitalismo che proietta l’individuo nell’isolamento di cui si rintracciano i caratteri nel sotto-paragrafo che segue. Nell’ultimo paragrafo si riprendono le fila del discorso a partire dall’ideologia neoliberale, i cui presupposti fondano la cultura del tardo capitalismo.
2. Sulla reificazione culturale
«L’analisi marxiana del lavoro sotto il capitalismo va molto in profondità, superando la struttura economica dei rapporti e raggiungendo il loro contenuto umano. Rapporti come quelli tra capitale e lavoro, capitale e merce, lavoro e merce, e quelli tra merci, sono visti come rapporti umani, rapporti che si verificano nell’esistenza sociale dell’uomo» (Marcuse, 1966, p. 311). La tesi secondo cui l’analisi marxiana della società si concentri esclusivamente sui rapporti economici, dando poca attenzione alla dimensione sociale e culturale, viene messa in discussione da Herbert Marcuse che evidenzia, al contrario, come la critica di Karl Marx sia sì orientata alla struttura economica, ma soprattutto ai suoi effetti sulla composizione sociale. Karl Marx critica l’economia politica e gli studiosi che l’hanno sostenuta a partire dal XVII secolo, perché la considera una disciplina che si preoccupa delle merci e non delle persone, e i cui meccanismi che reggono il sistema capitalistico, disumanizzano i rapporti tra gli individui. Secondo Marx, l’economia politica al servizio del sistema capitalistico produce una sorta di estraneazione dell’atto umano e riduce i rapporti sociali a puri rapporti materiali. Dunque, seppur la tesi di fondo del materialismo storico è che l’economia domina su tutte le sfere della vita, la grande attenzione che Karl Marx dedica ai “rapporti umani” è cruciale. Come si legge nei manoscritti economico-filosofici del 1844 (2018), l’essenza del denaro in quanto intermediario degli scambi ed espressione della proprietà privata, è quella di “mediatore estraneo” che si sostituisce all’uomo: «Il movimento mediatore dell’uomo che scambia non è infatti un movimento sociale, umano, non è un rapporto umano, è il rapporto astratto della proprietà privata alla proprietà privata, e questo rapporto astratto è il valore, la cui esistenza reale come valore è solo il denaro» (ivi, p. 187). Il fatto che l’economia politica incida sul rapporto “dell’uomo sull’uomo” è per Karl Marx la causa dell’alienazione. La mutazione dell’individuo sociale in “individuo proprietario” descrive lo svilimento dei legami sociali che lede “la coscienza”, concetto fondamentale nell’analisi marxiana che ha di per sé carattere umano e sociale. Il lavoro per Marx non è, infatti, un mezzo per sopravvivere ma per sviluppare le capacità intellettuali e fisiche, la libertà, la coscienza. Il lavoro non rappresenta la sublimazione delle attività economiche ma delle attività sociali, e più l’individuo si affanna e soffre alla rincorsa del benessere, più il mondo delle merci e dei beni prodotti gli diventa estraneo. In questo, va evidenziato, le intuizioni di Karl Marx sulle trasformazioni del sistema capitalistico contemporaneo sono state premonitrici(2). Lo spirito del capitalismo contemporaneo è ancorato ad un apparato ideologico che si impernia intorno alla capacità e alla possibilità dell’individuo di “darsi da fare” per incrementare i suoi possedimenti e procurarsi il benessere. In Karl Marx la reificazione dei rapporti sociali rappresenta l’oggettivazione del bisogno individuale ed egoistico determinato dalla produzione di beni, che non ha la necessità come principio di fondo. Gli individui sono isolati tra loro, alienati, e legati solo dalle merci che rendono “materiali” i rapporti sociali. L’alienazione dell’individuo è il risultato della sua sottomissione alla merce e alla produzione che lede le libertà, i bisogni e il benessere sociale. Il teorico marxista Fredric Jameson (2007), nell’ evidenziare quanto sia sempre più netta la separazione tra produttori e consumatori, estende al tardo capitalismo l’analisi marxiana sulla reificazione. Nella suavisione la cultura si materializza e si “musealizza”. Egli sostiene che tutti hanno accesso a forme di conoscenza ma, al contempo, ognuno è estraneo ai processi di formazione dei beni e dei “saperi”. Scrive a riguardo: «Probabilmente oggi la parola [reificazione] può volgere la nostra attenzione nella direzione sbagliata, perché quella “trasformazione dei rapporti sociali in “cose” che sembra designare con maggiore insistenza è divenuta una seconda natura» (Jameson 2007, p. 316).
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(1) Sul “fenomeno della reificazione” si veda l’importante lettura di Gyorgy Lukacs (1973).
(2) In più passaggi dell’opera di Karl Marx si ritrova il riferimento al capitale come “cosa eterna”, come “rapporto naturale e eterno” (1974, p. 173) che vive del lavoro, il “mostro animato” (Marx 1971) che si nutre dei corpi vivi per produrre valore.
3. Cultura di massa e carattere repressivo del capitalismo
Le analisi degli studiosi della scuola di Francoforte sulla comunicazione e sui media sono state forse le più importanti riflessioni sulla società di massa. Questi studi avevano a fondamento l’idea che la teoria critica fosse necessaria per mettere in crisi il “pensiero comune” della società capitalistica industriale. Herbert Marcuse, che dei francofortesi è quello più noto per essere il “filosofo del ‘68”, nell’introduzione alla sua opera L’uomo a una dimensione (1967), scrive che anche se gran parte della popolazione accetta la ragion d’essere del capitalismo industriale – che produce bisogni indotti e valori utili unicamente al consumo effimero di beni – questo non è un motivo sufficiente per accettare questa società senza tentare di metterla in discussione. La caratteristica principale della società di massa è l’omologazione, l’inclusione delle classi subalterne nella cultura dominante piuttosto che la loro esclusione dai processi di consumo. Per i sociologi della scuola di Francoforte, l’integrazione tra cultura alta e cultura bassa, che coniuga il desiderio “liberale” dell’individuo moderno con la voglia di coesione propria della società democratica, è espressione diretta dell’industrializzazione della cultura, del fatto cioè che anche le idee e i valori divengono beni di consumo. Questo processo che Horkheimer e Adorno descrivono in termini critici (1966) delinea nuove determinanti di dominazione funzionali ad organizzare i consumatori e i loro bisogni per asservirli al mercato. L’apparato del capitalismo avanzato, scrive Marcuse, non ha solo il compito di produrre beni da vendere sul mercato, ma promuove una falsa coscienza generata dall’indottrinamento che «diventa un modo di vivere» (Marcuse 1967, p. 32). La società di massa pertanto rappresenta una società dell’indistinto dove lo stato di soggezione si delinea attraverso il desiderio di libertà. Il dominio dell’uomo sull’uomo nella società del capitalismo avanzato che descrive Herbert Marcuse avviene in una società di uomini “liberi”. Per Marcuse, la società del benessere, della crescita economica, dello sviluppo che negli anni sessanta avviene nel campo della tecnologia industriale, rende il dominio sugli individui una “forma di libertà” attraverso la quale essi “immaginano” di poter scegliere e di autodeterminarsi (Marcuse 2008). In sostanza, le masse non producono la cultura intellettuale e materiale, esse sono sotto il giogo di un potere centralizzato, sono il prodotto del controllo degli amministratori e, di conseguenza, ne “subiscono” le politiche. La società tecnologica e industriale incide non poco su questo processo; essa utilizza la tecnologia come strumento di dominio e non come strumento di emancipazione (ivi p.168). Più questa accresce, attraverso la tecnica, il suo apparato produttivo, più l’individuo rimane imbrigliato in false zone di libertà. La dialettica tra dominanti e dominati non si annienta, ma si deforma nelle contraddizioni di un sistema sociale che riesce a sopravvivere: «Creando e riproducendo in modo sistematico e metodico il bisogno del lavoro alienato, non col terrore, ma mediante il condizionamento scientifico dei bisogni individuali e la riduzione dei bisogni spontanei ai bisogni richiesti socialmente» (ivi, p. 173). Questo si realizza attraverso la dissoluzione “apparente” delle due classi rivali della società industriale ottocentesca, la borghesia e il proletariato: «Nel mondo capitalistico esse sono ancora le classi fondamentali; tuttavia lo sviluppo capitalista ha alterato la struttura e la funzione di queste due classi in modo tale che esse non appaiono più essere agenti di trasformazione storica» (Marcuse 1967, pp. 10-11).
Nell’analisi critica di Marcuse la dimensione sociale è in costante conflitto con i presupposti che la sostengono e così l’apparato produttivo che caratterizza il capitalismo industriale ha i suoi effetti più nefasti sulla società. Marcuse utilizza il paradigma freudiano (1968) per interpretare il dominio cui sono soggette le masse e muove la sua analisi riconducendo le questioni ideologiche e socioculturali del capitalismo dei consumi alle pulsioni e alla struttura psichica. Per quanto queste analisi possano essere riducibili ad un modello di capitalismo che, seppur tecnologicamente avanzato, appare lontano dalle forme del capitalismo contemporaneo, esse descrivono il carattere pervasivo del controllo sociale che investe la psicologia dei soggetti. L’utilizzo critico di Freud è funzionale difatti alle analisi di Marcuse per osservare il ridimensionamento della libertà dell’individuo, la cui soggezione al sistema di pensiero del capitalismo, avviene attraverso le repressioni individuali. Si chiede a riguardo Marcuse: «Possiamo realmente parlare di un inconscio (nel senso in cui Freud faceva uso del termine), se l’inconscio è divenuto con tale facilità soggetto al controllo sociale − mediante le tecniche della pubblicità, della psicologia industriale, o della scienza delle human relations? » (Marcuse 2008, p. 173).
4. La variabile “sociale” del capitalismo
Nella sua disamina sul “capitalismo sociale” Richard Sennett (2006) ripercorre le analisi di Max Weber sul modello organizzativo dell’esercito prussiano applicato alle imprese nella Germania di Bismarck. L’efficienza e l’ordine del coordinamento militare vengono trasposte nella società civile, nell’organizzazione delle politiche e dell’economia, aprendo a quella forma di razionalizzazione piramidale delle istituzioni che Max Weber analizza nei suoi studi sulla burocrazia. Questo modello centralizzato continua ad esistere, con variegature diverse, nelle grandi aziende, nelle fabbriche e nelle organizzazioni del XX secolo fino agli anni settanta, quando ai proprietari delle imprese e delle fabbriche si sostituiscono gli azionisti del capitalismo finanziario. In realtà, l’apparente dismissione della centralità del sistema burocratico ha favorito il costituirsi di sistemi di “auto-sorveglianza” che si reggono sul “principio di responsabilità” individuale al quale i lavoratori vengono socializzati dalla logica d’impresa. Mark Fisher descrive questo processo prendendo ad esempio il modello valutativo del sistema delle strutture educative in Inghilterra, nella quali la burocrazia non scompare ma cambia aspetto (Fisher 2009, p. 59). Queste istituzioni, scrive Fisher, sono soggette alle regole del mercato e agli obiettivi da raggiungere, di conseguenza caricano i docenti di impegni e responsabilità gestionali oltre che didattiche con il fine di lasciar trasparire “all’esterno” l’immagine di un sistema coerente ed efficiente.
Nel campo delle politiche di welfare, il passaggio dal capitalismo industriale al capitalismo postindustriale genera nuovi assetti; si sgretolano l’insieme di istituti per la protezione collettiva che si occupavano della tutela dei cittadini (soprattutto sul lavoro) producendo quello che Robert Castel descrive come un processo di de-collettivizzazione (Castel 2011, 2015). Per contro, torna ad avere grande attenzione, tanto negli studi sociali quanto nelle politiche, il concetto di “comunità” che viene ad essere considerata come quello spazio sociale in grado di produrre “coesione sociale” dal suo interno così da generare senso civico, fiducia e soprattutto cooperazione. Aspetti questi presenti in molti studi, tra cui, per esempio, il noto lavoro degli anni novanta di Robert Putnam sulla riforma delle regioni italiane. Scrive il politologo: «La cooperazione volontaria è più facile all’interno di una comunitàche ha ereditato una provvista di “capitale sociale” in forma di norme di reciprocità e reti di impegno civico» (Putnam 1993, p. 196). Putnam sostiene che vi sia un nesso stretto tra il funzionamento delle istituzioni e il “capitale sociale” che, nel quadro delle sue analisi, rappresenta i legami fiduciari che si consolidano nel corso del tempo all’interno di una società o di un gruppo (Putnam 2004). Più complessa la riflessione di Pierre Bourdieu (2015), il quale collega le “forme di capitale” (sociale, culturale, simbolico) alle possibilità che gli individui hanno rispetto a quanto garantisce loro la struttura sociale. L’analisi di Pierre Bourdieu incentrata sull’habitus (2013) permette infatti di ragionare meglio sulle disuguaglianze e sulla distribuzione delle possibilità nelle società complesse dove la divisione sociale del lavoro sottostà alle logiche del merito e della responsabilità: «l’efficacia reale del capitale (nel senso dei mezzi che servono per appropriarsi del prodotto del lavoro accumulato nella condizione oggettivata) posseduto da una persona dipende da come sono distribuiti i mezzi per appropriarsi delle risorse accumulate e oggettivamente disponibili» (ivi, p. 94). Insomma, nel tardo capitalismo cambiano profondamente i meccanismi della tutela perché cambiano i principi che li governano, che proiettano sul governo del “sociale” le logiche generali del mercato(3). Ne risulta che le disuguaglianze non vengono più governate in tutto dallo Stato ma divengono oggetto di “progetti puntuali”, spesso coordinati da soggetti “privati” che necessitano, per la gran parte, della partecipazione attiva dei destinatari (del loro capitale sociale e culturale). Lo Stato non scompare ma, da garante della protezione generalizzata, diventa animatore di processi (Donzelot, Estebe, 1994). Queste azioni hanno il fine di potenziare le capacità individuali, di creare empowerment nei micro-ambiti urbani così da permettere agli “utenti” di venir fuori dal disagio agendo sulle proprie risorse. I progetti di valorizzazione sostituiscono i servizi territoriali segnando la definitiva rottura del legame tra individui e agenzie pubbliche di assistenza. La crisi delle istituzioni – «vale a dire l’insediamento progressivo e diffuso di un nuovo regime di dominazione» (Deleuze 1990, p. 241) la cui realizzazione Gilles Deleuze identifica, non a caso, nel passaggio dalla fabbrica all’impresa – è fortemente vincolata al “principio di merito” che è proprio della società tardo-capitalista che affida all’efficacia del progetto ogni sua attività. Di conseguenza, per lo stesso motivo per cui occorre “meritare” il successo, la fama e il lavoro, occorre “meritare” assistenza e divenire “obiettivi” di interventi sociali. Il fruitore di servizi socioassistenziali è considerato anch’egli un “soggetto di prestazione” che non ha però abbastanza “capitale sociale e culturale” o che non è in grado di sfruttarlo perché il suo “spazio di relazioni” (il suo ambiente di vita) è causa del suo deficit di competenze. Dunque, egli non è in grado di investire su di sé e da “soggetto di prestazione” diventa “soggetto a rischio” o “soggetto debole”. Nella società degli individui, nella quale vengono a mancare gli istituti collettivi che nella società industriale permettevano ai soggetti di essere “appartenenti” alla classe, alle organizzazioni, al lavoro, l’individuo isolato si trova a confrontarsi principalmente con la propria biografia (Eherenberg 2010).
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(3) La questione del neoliberalismo, evidenzia Michel Foucault (2005) – a differenza di quanto si possa dire per il liberalismo classico che invoca la totale libertà di mercato – è una
questione di “governo” attraverso la concorrenza, un governo senza dirigismo che funziona grazie ai principi di un’economia di mercato. Il passaggio a questa tipologia di governo i
matrice specificamente aziendalistica è strettamente connesso alla trasformazione del paradigma socioeconomico e culturale che, come spiega Foucault, introduce nuove egolamentazioni: le regole del mercato diventano regole politiche. Così il problema della politica liberale rimane quello di governare, di fatto, lo spazio concreto e reale in cui può entrare in funzione la struttura formale della concorrenza (Foucault 2005, p. 115).
4.1. L’isolamento del soggetto
Una importante intuizione di Max Weber sul configurarsi del capitalismo è di aver considerato la sua formazione in netta opposizione con il tradizionalismo (Weber 2017, p.81). Nello specifico, più che ad un modello economico basato sull’accumulazione di capitali, Max Weber si riferisce allo “spirito del capitalismo”, ovvero a quella mentalità che ha trovato nella forma dell’impresa capitalistica moderna la sua vocazione e che dall’impresa capitalistica, al contempo, riceve la sua forza motrice spirituale (ivi, p. 88). Weber evidenzia infatti che «il guadagno senza scrupoli, non vincolato da nessuna norma interna, c’è stato in tutti i tempi della storia, dovunque e comunque fosse effettivamente possibile» (ivi, p. 80), perciò il capitalismo non può essere ridotto alla sola dimensione economica e all’accumulazione di capitali. Il tradizionalismo cui si riferisce Max Weber è quella condizione politica e sociale che non rappresenta l’ambiente di formazione del moderno capitalista, il cui spirito è animato da tutt’altre propensioni. Egli ritiene che ciò che distingue il moderno imprenditore dall’accumulatore di ricchezze del passato è, insieme al razionalismo economico proprio della borghesia moderna, la volontà di ricerca di successo economico e la pianificata dedizione al lavoro. Perché ciò avvenga è necessaria una organizzazione dell’impresa moderna che coniughi lo “spirito del capitalismo” con la pacificazione e l’ordine sociale. Pertanto, il capitalismo industriale nel corso del tempo “va ristrutturandosi” a partire, come si è visto, dall’organizzazione burocratizzata, rigida e gerarchica delle imprese, delle fabbriche e finanche delle istituzioni pubbliche, che risponde alla necessità di mitigare i possibili impulsi sovversivi. Scrive ancora Richard Sennett a proposito della Germania di Bismarck: «La ragione più concreta che induceva Bismarck a ingrassare le istituzioni era la pacificazione della società: evitare conflitti dando a tutti un posto. L’obiettivo sociale e politico della burocrazia ingrassata è dunque più l’integrazione sociale che l’efficienza» (Sennett 2007, p. 27). Questa forma di “governo della diseguaglianza” continua in Europa almeno fin dopo la seconda guerra mondiale, creando le condizioni di quel “compromesso sociale” che, come spiega Robert Castel, garantisce equilibrio nella società attraverso negoziazioni fra lavoratori e sindacati (Castel 2011, p. 35). I conflitti nella società salariale sono, infatti, conflitti di classe, conflitti che evidenziano la radicalità della disuguaglianza fra categorie sociali, ma che al contempo lasciano intravedere delle possibilità nelle lotte collettive. Se negli anni delle contestazioni, quindi, la critica al capitalismo mette in discussione i presupposti della società di massa, ci si ritrova, successivamente, di fronte ad uno scenario diverso. Il nuovo “spirito del capitalismo” (Boltanski, Chiapello 2014), superate le crisi sociali degli anni sessanta e settanta e lo sconcerto ideologico e politico che sul finire degli anni ottanta investe l’ordine globale, sancisce un ritorno alla “società degli individui” nella quale il “soggetto collettivo” viene continuamente messo in discussione dai valori della “libertà individuale” (4). La logica del tardo capitalismo risponde, più di quanto avvenisse in passato, al desiderio di “liberazione dell’individuo”, di liberazione dai tempi fissi della fabbrica e del lavoro dipendente, dalle istituzioni educative disciplinari, dal controllo patriarcale della famiglia borghese e proletaria, ma lo proietta in un universo nel quale egli perde qualcosa in termini di sicurezza e di stabilità(5). Da questo punto di vista il capitalismo riesce a sfruttare al meglio le libertà individuali (Han 2016) e su di esse fonda il suo “credo”. La responsabilità non è più una qualità socialmente appresa attraverso le istituzioni, come segnala Bernard Stiegler (2014) che legge in questo il declino degli istituti quali la famiglia e la scuola; piuttosto, come nel management, essa diventa uno strumento di misurazione delle competenze (skills) individuali che ognuno è portato a sfruttare al massimo. Lo “spirito del capitalismo” dell’imprenditore di Max Weber si tramuta nello “spirito del manager” le cui specificità, come si riscontra già nella letteratura sul tema degli anni sessanta, sono la creatività, lo spirito d’iniziativa e le capacità individuali(6). Le regole e i codici di comportamento che hanno portato alla professionalizzazione della figura del manager (Boltanski, Chiapello 2014, p.113) diventano valori e ideali cui aspirare anche nella vita ordinaria. È in questo scenario di apparente emancipazione che occorre leggere la “privatizzazione” dei problemi sociali e dei rischi nella società contemporanea (Beck 2000; Castel 2011) che trasformano l’insuccesso in disagio individuale7. A differenza che nella fabbrica, è spingendo sulla “motivazione” che l’impresa introduce la rivalità tra gli individui (Deleuze 1990). Come scrive lo psicologo Oliver James, le politiche del capitalismo, in quanto politiche concentrate sull’individuo più che sulla collettività, sono politiche egoistiche che impongono di «badare a se stessi e mandare al diavolo tutti gli altri» (James 2009, p. 69).
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(4) Su questo si veda D. Harvey (2007).
(5) Pertinenti a riguardo le analisi del noto studio di R. Sennett (2003) sulle trasformazioni che riguardano il lavoro.
(6) Come si legge nell’articolo di Raymond Miles (1965) ciò si evince nel passaggio dal modello delle “relazioni umane” a quello delle “risorse umane” nella gestione dell’azienda capitalistica.
(7) Il sociologo Alain Ehrenberg (2010), nel suo studio sul rapporto tra depressione e società, rintraccia lo “spirito generale” della società contemporanea nella distanza dell’individuo dal mondo a lui “esterno” (quello delle istituzioni, per esempio), e nello sforzo di ognuno di sfruttare al massimo le “risorse interne”. Per questo, scrive: «La misura dell’individuo ideale non è più data dalla docilità ma dall’iniziativa. E qui sta uno dei mutamenti decisivi delle nostre forme di vita, dal momento che queste nuove forme di regolazione non sono una scelta privata di ognuno di noi ma una regola comune, valida per tutti, pena l’emarginazione» (2010, p. 51).
5. La cultura del tardo capitalismo. Sulla base dell’immanenza dell’ideologia neoliberale
«Fondamentalmente, il liberalismo non è altro che una filosofia dei sistemi sociali fondata su una certa visione dei comportamenti umani: la visione economica» (Lepage 1978, p. 132). Questa frase di Henri Lepage dice molto sull’ideologia liberista del tardo capitalismo e sulla sua “presa” nella società. Il liberalismo non è solo un paradigma economico ma una filosofia della società che si basa sull’idea che i comportamenti degli individui siano mossi da logiche economiche. La “visione economica” di cui scrive Lepage descrive un “comportamento” – «dimentichiamo che la scienza economica si fonda su un modello semplificato dei comportamenti umani […]» (ivi, p. 122), i cui principi si basano sull’interesse individuale che muove gli agenti economici ma che, allo stesso tempo, giova alla collettività. Il paradigma dell’homo oeconomicus, come sottolinea l’economista in alcuni passaggi della sua opera, può essere applicato ad una molteplicità di situazioni umane e sociali, anche a quelle che hanno a che fare con i beni apparentemente “non commerciabili” come la politica (ivi, p. 132). Ogni decisione umana implica un qualche calcolo, i cui ostacoli sono dati dai vincoli dell’organizzazione sociale che compromettono gli sforzi individuali che altrimenti produrrebbero il buon funzionamento dell’apparato “collettivo”. Da teorico liberista, Henri Lepage si concentra sul comportamento individuale e sul modo in cui esso incide nelle scelte collettive e prende ad esempio gli studi avviati dalla scuola liberale americana della public choice che nasce intorno anni sessanta. La grande novità di questo approccio è quello di considerare l’agire politico alla stessa maniera dell’agire economico: anche nel campo dell’azione pubblica gli individui si comportano come nell’impresa capitalistica, con l’intenzione cioè di perseguire l’interesse personale(8). È chiaro allora che il capitalismo per funzionare – secondo quanto i teorici del liberalismo cominciano ad evidenziare nel corso del convegno Walter Lippmann, considerato il momento di fondazione del neoliberalismo(9) – non può basarsi unicamente sul corretto funzionamento delle istituzioni della società se questo non è orientato da un nuovo ordine di valori che mette al centro l’individuo e i suoi interessi. Il neoliberalismo, in questi termini, rappresenta un superamento del liberalismo classico del laissez-faire – è proprio questa la tesi di Walter Lippmann nei suoi interventi al colloquio e nella sua opera (Lippmann 1945) da cui l’incontro di Parigi nasce – per convergere verso un’ideologia, finanche regolata da una qualche forma di “governo docile”, che favorisca l’adattamento degli individui ai continui mutamenti della società prodotti dal capitalismo (Dardot, Laval 2013, p. 187). Ciò che accomuna le idee dei partecipanti al convegno Walter Lippmann – differenti per alcune questioni, sulla natura di un nuovo liberalismo(10) – è senza dubbio l’avversità verso qualunque forma di “collettivismo” (Dardot, Laval 2013), verso quelle ideologie, cioè, che hanno come presupposto il “soggetto collettivo” e non l’individuo. È questo, di fatto, il perno intorno al quale ruotano le tesi dei sostenitori del neoliberalismo ed è questo l’elemento che segna la profonda differenza con le analisi di derivazione marxiana, incentrate invece sul ricostituirsi della coscienza sociale. Dunque, nel quadro della logica culturale del tardo liberalismo gli individui governano la propria esistenza mentre le istituzioni rappresentano la forma oggettivata delle relazioni sociali, alla stessa maniera in cui nell’impresa capitalistica sono le persone che “governano” la propria carriera e non le organizzazioni per le quali lavorano.
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(8) La teoria della scelta pubblica cerca di comprendere le imperfezioni dell’apparato pubblico partendo dal presupposto che i meccanismi delle decisioni umane sono gli stessi in economia e in politica come in qualunque altra situazione. Per questo motivo l’obiettivo e cercare di comprendere cosa muove le scelte delle persone e degli elettori e quali sono i vincoli alle decisioni della collettività. Cfr. James Buchanan (1989)
(9) Michel Foucault (2005) introduce nei suoi corsi sulla biopolitica una prima analisi sul convegno Walter Lippmann. Si veda a riguardo anche la disamina che propongono Pierre Dardot e Christian Laval (2013) e la recente traduzione in inglese del Colloquium curata da Jurgen Reinohudt e Serge Audier (2018).
(10) Su questo si veda J. Reinohudt e S. Audier (2018) e P. Dardot e C. Laval (2015).
Il capitalismo della tarda modernità coniuga la centralità dell’economia con la “cultura economica”, ovvero con l’idea “socialmente condivisa” che per il benessere collettivo sia necessario impiegare le forze a disposizione per la realizzazione delle imprese individuali. Di qui le tesi secondo le quali il mercato e la proprietà privata debbano svolgere un ruolo di prim’ordine nelle negoziazioni sociali(11). Se oggi il capitalismo rappresenta “l’orizzonte del pensare” (Fisher 2009) è perché l’ideologia liberale ha funto da presupposto per la sua riproduzione sociale assolutizzandone i principi e rendendoli “necessari” – attraverso la creazione di “nuovi bisogni” – all’esistenza della società. È pensabile il capitalismo senza un sostrato culturale che ne garantisca l’immanenza? Il liberalismo diventa “logica culturale”, riesce a garantire credibilità “al capitalismo” sedimentando nell’immaginario il culto della liberazione (ideale) dell’individuo dalla struttura sociale, in totale contrasto con la concezione materialistica della storia di cui scrivevano Karl Marx e Friedrich Engels ne L’ideologia tedesca: «La liberazione è un atto storico, non un atto ideale, ed è attuata da condizioni storiche, dallo stato dell’industria, del commercio, dell’agricoltura, delle relazioni […]» (1975, p. 15).
Per esistere, scrivono Dardot e Laval, «(…) la politica neoliberista deve puntare a modificare l’uomo stesso. In un’economia in movimento perenne, l’adattamento è un compito sempre all’ordine del giorno se si vuole ricreare un’armonia tra il mondo in cui si vive e si pensa e gli obblighi cui si è sottoposti » (Dardot e Laval 2013, p.188). È in fondo questo il presupposto di un’ideologia orientata al mantenimento dell’ordine socioeconomico del capitalismo che, come scrive Mark Fisher, è riuscito a colonizzare le aspirazioni, i desideri e i sogni delle persone (Fisher 2009, p. 8) rifondando l’idea di “individuo” ma indebolendo il “gruppo sociale”, o la “società corporativa” per usare le parole di Henri Lepage. Suonano attuali a riguardo le parole che l’economista usa nelle ultime pagine del suo libro, che ricordano la destrutturazione culturale nella società del tardo capitalismo: «Il liberalismo non è né a destra né a sinistra: esso è al di là della politica. È esattamente il contrario dell’attuale società corporativa (Lepage 1978, p. 287)».
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(11) Queste tesi considerano la proprietà privata come presupposto per l’ordine e per la legge, anzi la definiscono come qualcosa che ha la funzione specifica di delimitare lo spazio della legittimità, di confinare i limiti del diritto (Lotteri 2005). Di conseguenza la proprietà dello Stato è considerata una sottrazione alla proprietà dei cittadini già sottoposti al pagamento delle imposte (Lepage, Rothbard 2005).
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